ideazione e regia Danio Manfredini
con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete
assistente alla regia Vincenzo Del Prete
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri
disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi
collaborazione ai video Stefano Muti
sarta Nuvia Valestri

La corte ospitale
un ringraziamento a tutti coloro che hanno sostenuto il progetto attraverso la campagna di crowdfunding, in particolare ai “coproduttori” Sotto-Controllo, Elsinor Teatro Stabile di Innovazione, Versiliadanza, Collettivo di Ricerca Teatrale – Vittorio Veneto

Durata 1h 30’

Danio Manfredini, una delle voci più intense del teatro contemporaneo italiano, presenta il suo ultimo allestimento, Vocazione. Direttore dell’Accademia d’Arte Drammatica del Teatro Bellini per il triennio 2013/2016, insignito di un Premio Speciale Ubu 2013 e del Premio Lo Straniero 2013 come «maestro di tanti pur restando pervicacemente ai margini dei grandi circuiti e refrattario alle tentazioni del successo mediatico», l’attore, autore e regista Danio Manfredini traccia in questo suo ultimo allestimento un quadro sulla figura dell’attore teatrale, dei vari stadi che attraversa e che lo conducono alla creazione, di come si contaminano i piani della vita con quelli dell’arte e viceversa. A partire dal repertorio teatrale in cui autori come Cechov, Shakespeare, Mariangela Gualtieri, Testori o ancora Bernhard trattano esplicitamente la condizione dell’attore teatrale, Manfredini, affiancato in scena da Vincenzo Del Prete, estrae frammenti per ricercare la condizione dell’artista teatrale e la delicatezza del momento che sta attraversando.

Mi apro a un percorso di lavoro teatrale che verte sul tema dell’attore di teatro e della sua vita.
Metto a fuoco questo soggetto in un momento in cui sembra inutile, non necessario, occuparsi di teatro, di arte e di conseguenza dell’attore- autore-regista teatrale, figura che sembra in disuso. Pur accogliendo i progressi della tecnologia e il potenziale che offrono all’arte, ritengo centrale la figura dell’artista nella sua essenza umana scarna. Come il semplice che sta in una frase, in un canto, nella danza va a stagliarsi con il suo senso proprio dove tutto sembra morire.
Fosse anche, come si dice, che il teatro è destinato a sparire, ci tocca dare luce al tramonto.
Sarebbe comunque un privilegio, glorificare il momento del tramonto, così vicino al buio.
Danio Manfredini

http://daniomanfredini.wordpress.com/

www.corteospitale.org

Conversazione con Danio Manfredini

Da l’intervista ‘Il Teatro è Vocazione – Conversazione con Danio Manfredini’ di Graziano Graziani, numero di dicembre dei Quaderni del Teatro di Roma.

Secondo te oggi, rispetto a uno o due decenni fa, in teatro si rischia meno sul terreno dell’incontro con le altre arti?

Io continuo a infilarmi in quella strada. I primi segni del lavoro che sto appena improntando, che si intitola Vocazione, mi lasciano intuire che i vari linguaggi artistici per me continuano a parlarsi molto. A contaminarsi. Dall’immagine, al testo, alla danza, alla prosa. Sono tutti elementi di uno stesso linguaggio che deve dare forma a delle espressioni che non sempre scelgono la stessa disciplina per esprimersi. Certo, negli ultimi anni ci sono stati molti monologhi anche per ragioni economiche, che si concentrano sull’attore. Molti di questi monologhi poi si sono improntati al teatro di narrazione, che si è concentrato su alcuni elementi impoverendo altri aspetti della scena. Io non ho una passione per la narrazione, lo dico francamente, per la stessa ragione per cui non riesco a leggere romanzi, ma solo saggistica e poesia: la mia è una mente che fa fatica con il nudo racconto. Credo che il racconto sia un asse debole perché non è un asse drammatico. La narrazione ha reso meno drammatico il teatro. Per me, invece, è importante tornare a una drammatizzazione del teatro. Ovviamente non parlo in assoluto, ma per quanto riguarda il mio gusto personale.

(…)

Il tuo prossimo lavoro si chiama Vocazione. La vocazione di Danio Manfredini da dove nasce?

Non sono assolutamente uno che da piccolo “voleva fare il teatro”. Lo facevo a scuola e per me era un’ansia terribile. Capitò per caso che il giorno del mio diciottesimo compleanno bussò alla porta di casa mia una persona: era César Brie che vendeva libri sul teatro. Vivevo a Cerchiate di Pero, nell’hinterland di Milano, un posto dove è davvero difficile capitare per caso. Comprai il libro e iniziai a frequentare il suo laboratorio teatrale. Sono abbastanza d’accordo con l’affermazione di Minetti nel “Ritratto dell’artista da vecchio” di Thomas Bernard, secondo cui il teatro è una vocazione. Ma è una vocazione che si costruisce un po’ alla volta, si approfondisce nel tempo, non è qualcosa che si ha da subito e in modo definito. Il teatro è una modalità di esperienza che ti permette di vivere la vita in maniera anche più amplificata di quello che la vita stessa ti può offrire. Nel tempo cresce un’affezione rispetto a questa capacità che il teatro ha di aprire delle porte, degli stati d’animo, delle condizioni mentali che molto spesso la vita non ti permette di esplorare. Nella vita, se le esplori, poi non hai più una via di ritorno. Invece nel teatro hai la possibilità di esplorarli e tornare indietro. Puoi esplorare l’assassinio senza per forza uccidere. Ti permette di ascoltare non solo la tua vita, ma anche le vite delle persone che abbiamo intorno, e di farne esperienza e capire che cosa significa avere quel tipo di destino. Però poi c’è il ritorno al sé. È un’opportunità di conoscenza straordinaria.

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